LA TEMPESTA di William Shakespeare

Regia GABRIELA ELEONORI
con GIOVANNI MOSCHELLA e ROBERTO ROSSETTI

<< “La Tempesta” potrebbe essere il testamento del grande Genio teatrale inglese. Penultima opera di Shakespeare, sembra voler contenere tutto il pensiero e tutto il sentimento del Bardo. Quindi del Teatro stesso. Un testamento che è arrivato a noi intatto in tutti i suoi significati. Il Teatro è rappresentazione e linguaggio universale dell’Uomo e, quindi, in esso ci riconosciamo, in ogni epoca e luogo. Già dalle prime pagine del testo tutto è avvenuto. Assisteremo, così, solo all’epilogo delle vicende dei singoli personaggi in tempo reale, nel momento stesso in cui seguiremo la rappresentazione. Ciò che è avvenuto in precedenza sarà raccontato dai personaggi stessi. Prospero, Duca di Milano, viene spodestato dal geloso fratello Antonio, che, aiutato dal Re di Napoli, Alonso, lo fa allontanare insieme alla figlioletta Miranda di tre anni. Da qui inizia il racconto, dall’isola dove sono stati esiliati da circa dodici anni. Prospero e Miranda non sono, però, gli unici abitanti di questo luogo remoto. A popolarlo c’è, innanzitutto, Calibano, un essere che lo stesso autore definisce “non onorato con forma umana”. Il deforme o, meglio, come suggerisce Giorgio Streheler, il “difforme”. Una creatura figlia del demonio e di una strega. Orribile groviglio di sangue e natura aspra. Essere spregevole perché primordiale. Indigeno perché prigioniero. Repellente perché sconosciuto. Al suo opposto troviamo l’altro essere che vive sull'isola. Ariel, spirito dell’aria, liberato da un sortilegio che lo teneva imprigionato nel tronco di un albero. Terra, aria, condanna, prigionia, metafisica, cabala. La vicenda parte da una tempesta che fa naufragare su questa stessa isola Antonio, Alonso e i loro rispettivi equipaggi. Quasi per una coincidenza o, molto più probabilmente, per una improrogabile necessità della Storia, questi due mondi sono obbligati a scontrarsi. Prospero, al centro, medita vendetta per le ingiustizie subite, ma è, ormai, un abitante di quel posto remoto e mai nominato. L’incontro o lo scontro non diventa mai un confronto tra civiltà, ma un discorso alto sulla conduzione della vita e su quel dipanarsi dei rapporti che, spesso, noi abbiamo fretta nel definire. Proprietà, supremazia, diversità, giustizia, amore coniugale, passione terrigna, potere, schiavitù. Quel luogo diventa il centro di un passaggio ad un “nuovo mondo”. Un precipizio sul futuro. Una strettoia obbligata. Un evento ciclico che la Storia ci ripropone ogni qualvolta bisogna mettere in discussione le nostre fragili certezze perché qualcosa di “difforme” si profila all’orizzonte. Quel luogo diventa, quindi, al contempo metafora sublime dell’Uomo e della Storia e sito immortale perché tappa obbligata che segna il passaggio delle generazioni. Luogo meticcio che indebolisce ogni convinzione ed ogni uso. Ed è in questa contemporaneità che si materializza la necessità della messa in scena. Lì dove il Potere si scontra con il Sapere ed insieme cozzano con le forze della natura, si avverte il gusto spaventoso della metamorfosi. È lì che Shakespeare si interroga sulla necessità di un “uomo nuovo”. Trasformato, vivificato dalla propria debolezza, ma fortificato dalla volontà di meraviglia e innamorato della sorpresa. Le divisioni comode e pigre tra il “giusto” e “l’ingiusto”, tra il “buono” e il “cattivo” sono armi di difesa. Il confronto delle esperienze che convergono in un luogo per trasformare tutti i convenuti è il Teatro. Ed è lì che, ogni volta, ogni giorno, gli attori e il pubblico cercano di vedere un “uomo nuovo”. È lì che si è certi si debba compiere la trasformazione. Lì, su quell’isola senza nome, persa nel Mar Mediterraneo. >> [Gabriela Eleonori]